“La verità non cambia nulla di ciò che proviamo per gli altri. È la grande tragedia dei sentimenti.”

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Cit. Joel Dicker, La verità sul caso Harry Quebert

Leggendo questo romanzo (oltre 700 pagine in meno di una settimana, no non mi sto vantando, ero davvero agganciata!) questa frase mi ha imposto di fermarmi un momento e di riflettere sul suo significato; di pensare a quanto, per me, la verità possa o meno influire sui sentimenti.

Risultato? Questa riflessione mi colpisce sempre molto, ma una parte di me continua a pensare che a volte i sentimenti, sia negativi che positivi, scaturiscano proprio dalla scoperta della verità… E voi cosa ne pensate?

In ogni caso questa citazione mi affascina, è malinconica e poetica, un pò come il libro in generale e soprattutto come la storia d’amore che esso racchiude. Una storia d’amore affatto banale, controversa, ma tenera e romantica allo stesso tempo.

Se non lo avete ancora fatto vi consiglio di leggere il romanzo, è un perfetto giallo deduttivo da portare con sè durante l’estete, scritto in modo estremamente fluente e chiaro, per niente pomposo!

Se invece al solo leggere “oltre 700 pagine” avete tremato, niente paura ragazzi! La serie tratta dal libro è veramente fedele e ben realizzata (eh si ogni tanto capita) quindi non perdetevi questa intrigante storia che, vi assicuro, vi terrà con il fiato sospeso fino alla fine!

 

 

 

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Roma. Recensione in 10 righe (o giù di lì)

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Roma (Alfonso Cuarón, 2018)

1970. Nel quartiere Colonia Roma a Città del Messico vivono Sofia e Antonio, i quattro piccoli figli e la madre di lei, con loro le due domestiche, Adela e la giovane Cleo, fulcro dell’intera narrazione. La ragazza di origine mixteca (come effettivamente è l’attrice) si occupa della casa e dei bambini senza mai dimostrarsi stanca o insoddisfatta; nel frattempo il capofamiglia Antonio, medico, parte per una conferenza in Québec. Tuttavia il dottor Antonio non accenna a ricomparire, la moglie Sofia dice ai bambini che il viaggio si è prolungato, ma nel frattempo li incita a scrivere lettere al padre pregandolo di tornare a casa. Le domestiche spendono il tempo libero con i loro fidanzati, la dolce Cleo scopre l’amore, ma conoscerà ben presto anche la sofferenza che ne deriva…

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Genere: drammatico, sentimentale

Cast: Yalitza Aparicio, Marina de Tavira, Daniela Demesa, Latin Lover, Nancy Garcìa Garcìa, Jorge Antonio Guerrero

OSSERVAZIONI SOGGETTIVE MA UMILI: Di recente ho letto qualcosa tipo “Alfonso Cuarón non è un regista empatico”, a chi scrive ciò vorrei rispondere “beh, non a casa mia!”. Ho provato un sentimento di affetto nei confronti di Cleo fin da subito e in questo senso ho trovato la scelta di un’attrice non professionista, anzi esordiente, semplicemente perfetta. Quello di Cleo è un personaggio talmente puro e genuino che probabilmente un’attrice professionista non ne avrebbe colto la delicatezza. Ma il bello è che Cleo non è solo delicata, è anche tenace, salda, detentrice di un grande equilibrio che le permette di non perdere mai se stessa, neanche nei momenti peggiori. E tramite Cleo, che è il fulcro di tutto il film, tramite la sua mediazione, ho finito per provare empatia anche verso quei personaggi  meno “simpatici”: la nevrotica signora Sofia e i bambini a volte capricciosi acquistano una grande umanità proprio grazie al punto di vista secondo cui è girato il film. Roma è un’opera personalissima e sincera, nella quale il regista esprime le sue radici e, di conseguenza, se stesso.

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C’è chi ha definito Roma un film neorealista e non credo sia solo per la fotografia in bianco e nero o per la scelta di un cast di attori non professionisti, ciò che avvicina questo film alla più alta manifestazione del cinema italiano è la purezza, il realismo e la complessità della semplicità.

 

 

Lo sciacallo – Nightcrawler – Recensione in 10 righe (o giù di lì)

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Lo sciacallo – Nightcrawler – (Dan Gilroy, 2014)

Lou Bloom (Jake Gyllenhaal) si guadagna da vivere rubando e poi rivendendo materiale metallico, è un furfante, si, ma anche particolarmente intraprendente. Lou vuole un lavoro, vuole fare strada e dalla sua spiccata capacità dialettica deduciamo che qualcosa si inventerà. Una sera assiste ad un incidente stradale e rimane subito affascinato dal lavoro degli operatori che riprendono la scena per venderla ai network televisivi; quindi Lou si procura una videocamera e una radio della polizia per tenersi aggiornato e si butta a capofitto in questo nuovo impiego. Lavora sodo, assume e sfrutta l’ assistente Rick, ricatta la responsabile delle notizie di un importante emittente televisivo, Nina, insomma fa tutto ciò che serve al giorno d’oggi per garantirsi una salda carriera di successo. Immergendosi sempre più a fondo nella Los Angeles notturna e violenta che interessa ai notiziari comprendiamo che Lou è senz’altro un uomo astuto e ambizioso, quanto sta a voi scoprirlo…

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Genere: drammatico, thriller, noir

Cast: Jake Gyllenhaal, Rene Russo, Riz Ahmed, Bill Paxton

OSSERVAZIONI SOGGETTIVE MA UMILI: Esordio alla regia per Dan Gilroy, figlio d’arte e già sceneggiatore. La storia è in parte scabrosa, ma accattivante, ti aggancia e vuoi sapere dove/se andrà a finire. Il protagonista (magistralmente interpretato da Jake Gyllenhaal) è, per farla breve, fuori di testa, ma mantiene sempre una sua logica (seppur spietata e crudele alle volte). Ho trovato molto interessante e attuale come viene affrontato il tema del lavoro: Lou ruba, è anche bravo, ma ciò non soddisfa le sue ambizioni e nemmeno le sue capacità, nessuno vuole offrirgli un’opportunità quindi deve crearsela e quando lo fà la sua determinazione non trova limiti. Nina, la responsabile delle notizie, è l’esempio di chi deve scendere a compromessi per mantenere la sua posizione di spicco. Rick invece è il classico giovane “indeciso”, quello che potrebbe anche avere delle potenzialità, ma non sà proprio che cosa vorrebbe fare della sua vita, non è proiettato verso niente; riuscirà a integrarsi, a scendere a compromessi come gli altri, riuscirà a capire le regole del gioco? In conclusione vedo Lou e Rick come le due facce di una medaglia, due diversi approcci al crudele mondo del lavoro odierno, che troppo spesso premia i disonesti e abbandona i più deboli.

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The Bad Batch. Recensione in 10 righe (o giù di lì)

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The Bad Batch (Ana Lily Amirpour, 2016)

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In una vasta area recintata al confine con il Texas vengono spediti e dimenticati i soggetti considerati “difettosi” dalla società: matti, criminali, vecchi, malati e tossici, nonché quella figa della protagonista che appena arriva in questa terra di nessuno (regolata quindi da alcuna legge) viene mutilata da dei cannibali. Ma la giovane non si arrende, lotta per la sua vita e giunge a Comfort Town dove le viene fornita la protesi di una gamba; adesso può camminare per il deserto che circonda la “città”, incontrando nuovi cannibali e, soprattutto, una bambina, la cui presenza innescherà la storia. Il linguaggio del film è evocativo e tutt’altro che verbale, il deserto che ospita l’intera storia risulta selvaggio e suggestivo, ma anche costellato da allegorie del presente americano. Visivamente affascinante, un po’ western, un po’ pop, un po’ videoclip musicale.

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Genere: Sentimentale, Fantascienza

Cast: Suki Waterhouse, Jason Momoa, Jayda Fink, Keanu Reeves, Jim Carrey, Giovanni ribisi

OSSERVAZIONI SOGGETTIVE MA UMILI: Il personaggio di Keanu Reeves è probabilmente il più interessante, un santone tra Manson e Escobar, il cui pensiero risulta tutto sommato, piuttosto ragionevole. Sembra una storia di vendetta (sicuramente ci si ispira), ma non ho ben capito se effettivamente lo sia. Vice Films, che produce la pellicola, ha definito la Amirpuor “il prossimo Tarantino”; io personalmente ho apprezzato parecchie scelte (soprattutto stilistiche) di questa regista emergente, ma come diciamo noi a Roma, Vice, “non t’allargà”.

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Recensioni in 10 righe (o giù di lì)

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(Possibile alternativa al trailer di 5 minuti che può risultare leggermente esaustivo)

Ogni volta che un film mi incuriosisce guardo il trailer e me ne pento, perché ormai i trailer sono tutti uguali: di solito si aggirano intorno ai due minuti e mezzo, prima ci presentano i personaggi con qualche informazione piuttosto rilevante (tipo che cosa combinano nella vita e da dove provengono). Poi magari ci mostrano l’incidente scatenante della storia e via che parte il serrato e accattivante montaggio composto da: le due/ tre battute migliori DI TUTTO IL FILM, la scena che non ti aspetti (ma che quando vedrai il film conoscerai già), la situazione pericolosa/divertente se il film è d’azione, drammatica/rivelatrice se si tratta di un altro genere. Momenti salienti direttamente dello scontro finale e per chiudere un’ ultima battuta ad effetto. Fine (del trailer o del film?).

Questa introduzione per dire che dei trailer non mi fido più, soprattutto di quelli che durano intorno ai 5 minuti e che illustrano l’intero film seguendo fedelmente la sequenza cronologica dell’intreccio (ogni riferimento a film di supereroi è puramente casuale). E di certo, per capire se può interessarmi un film, non mi affido a quelle recensioni di 2/3 pagine che esaminano nel dettaglio ogni inquadratura, quelle mi piacciono molto, ma preferisco leggerle dopo aver metabolizzato il film precedentemente visto, altrimenti rischio di farmi un’idea che non è neanche la mia. Per concludere, ormai si parla talmente tanto di ogni singolo film in uscita che mi è capitato spesso di farmi un’idea piuttosto precisa, di essere entusiasta e in parte, lo ammetto, già fan della pellicola, per poi ritrovarmi delusa e anche un po’ arrabbiata, come se vedessi una cosa che in fondo ho già visto.

Quindi, vi propongo qui sul nostro nido del cuculo, una serie di recensioni brevi e, per quanto io riesca, oggettive e oneste.

10 righe, o giù di lì, per capire se il film in questione lo volete vedere, senza che qualcuno vi spieghi già se vi piacerà o meno.

Kidding e il grande ritorno di Jim Carrey, perché non dovete perdere la nuova serie in arrivo su Sky Atlantic

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Nel 2014, esattamente vent’anni dopo l’uscita del primo film ( indiscusso campione d’incassi) Jim Carrey torna sul grande schermo accanto a Jeff Daniels per l’attesissimo sequel di Scemo & + scemo; tante risate.

L’anno dopo l’esistenza di Carrey viene colpita da una devastante perdita e da lì si impegna a recitare di nuovo solo nel 2016, una piccola parte nell’accattivante pellicola di fantascienza distopica scritta e diretta da Ana Lily Amirpour e un documentario, il documentario: Jim & Andy: The Great Beyond – Featuring a Very Special, Contractually Obligated Mention of Tony Clifton, la documentazione dell’intensa catarsi di Jim Carrey sul set e fuori da esso.

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Il documentario ha portato alla luce immagini tenute nascoste per quasi vent’anni a causa dei timori della casa di produzione Universal, convinta che Carrey sarebbe risultato agli occhi di tutti un bastardo. Ma perché tanti scrupoli?

Intanto, facciamo un po’ di chiarezza sul film in questione. Stiamo parlando di Man on the moon, il lungometraggio realizzato da Milos Forman nel 1998 (esattamente dal 27 luglio al 24 novembre di quell’ anno), incentrato sulle vicende professionali e personali dell’eccentrico comico statunitense Andy Kaufman. Il film racconta di come Kaufman abbia stravolto il concetto di spettacolo, arrivando a proporre esibizioni sempre più provocatorie e ai limiti del surrealismo, fino alla tragica scoperta di un cancro ai polmoni che lo condurrà alla fine dei suoi giorni.

L’attore comico era talmente sopra le righe che, per anni, molte persone dubitarono della sua morte ritenendola il suo ultimo e più grande scherzo. Alcuni, addirittura, ipotizzarono che Kaufman si fosse sottoposto a una serie di interventi chirurgici per modificare il suo aspetto e assumere quindi una nuova identità, probabilmente quella di… indovinate chi? Esatto, proprio lui. il nostro amato Jim Carrey. Ovviamente le date non coincidono e la teoria viene smentita, tuttavia i due comici sembrano legati da  misteriose  affinità.  Forse perché sono nati entrambi il 17 Gennaio, forse perché Jim è stato senz’altro affascinato e influenzato dalla creatività dilagante di Kaufman. Fatto sta che durante le riprese del film accade qualcosa di strano. Con lo scorrere delle immagini ci rendiamo conto che il comico più amato del mondo, risulta quasi “non pervenuto”. Jim viene annullato da Andy e, sporadicamente, dal bizzoso alter-ego dello stesso Andy, l’irascibile e irriverente cantante Tony Clifton.

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Nel documentario tutto ciò è incorniciato dai lucidi commenti di un Jim che non conoscevamo ancora, un Jim serio e consapevole, in poche parole, l’uomo dietro alla maschera, quella maschera sorridente e a volte verde che per tanti anni siamo stati abituati a credere fosse il suo vero volto. Come lo stesso Carrey afferma riferendosi alla sua esperienza durante le riprese “varchi una soglia senza sapere cosa troverai dall’altra parte. E dall’altra parte c’è tutto”-

Kidding . Il fantastico mondo di Mr. Pickles, la serie televisiva prodotta da SHOWTIME in uscita su Sky Atlantic, in parte è proprio questo; una serie di porte che si aprono. A partire da quella che si spalanca bruscamente di fronte a Jeff Piccirillo (noto al pubblico con il nome di Mr. Pickles) alla morte del figlio Phil, fratello gemello dell’undicenne Will. Da trent’anni Jeff, amatissimo conduttore televisivo, cresce i bambini di tutta America insegnando loro tolleranza e gentilezza, ma soprattutto l’importanza di essere se stessi. Ma chi è davvero Jeff? I creatori della serie lo hanno definito semplicemente “a kind man in a cruel world” (un uomo gentile in un mondo crudele).

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In che modo quest’ uomo gentile affronterà la crudeltà del mondo? Tra pupazzi, sorrisi, dolore, paura, ma anche amore, sta a voi scoprirlo. Ciò che è certo è che Kidding è una serie che tocca lo spettatore nel profondo, portando alla luce vulnerabilità e timori comuni a tutti noi.

E tutto ciò avviene attraverso il magico e melanconico tocco di Michel Gondry, il regista francese che aveva già diretto Carrey in Eternal sunshine of the spotless mind (in Italia tragicamente noto con il titolo “ Se mi lasci ti cancello”), in cui Jim era protagonista insieme alla splendida Kate Winslet. La sublime sceneggiatura di Charlie Kaufman (che gli valse l’Oscar) aveva portato finalmente sullo schermo una storia d’amore affatto convenzionale, capace di fornire una visione a tutto tondo di questo potente sentimento che il cinema ci ha propinato per molto tempo sempre nelle stesse salse.

Durante le riprese, nel 2004, Gondry aveva ridotto il copione al minimo, lasciando ai suoi attori grande libertà (attitudine molto francese, ma alimentata sicuramente dalla professionalità di Kate, di Jim e del resto del cast); il risultato era stato infatti coinvolgente e sincero.

Guardando Kidding, si ha la stessa impressione, una grande sincerità pervade questa produzione e Jim Carrey stesso, un Jim che non siamo abituati a vedere, un artista rimasto celato troppo a lungo, ma che, finalmente, abbiamo la possibilità di conoscere.

Ammiro Jim Carrey praticamente da sempre, ma questa volta mi ha davvero stupita. E voi, siete curiosi?

Io adesso sono curiosa di sapere come verrà accolta questa serie in Italia, se riceverà l’attenzione che merita, ma soprattutto sono curiosa (a dir poco) di vedere la seconda stagione! E durante l’attesa spero di scoprire cosa ne pensate voi!

 

 

 

 

Addio a Bernardo Bertolucci, grande maestro del cinema italiano

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Correva l’anno 1970, Bernardo Bertolucci esprimeva, tramite il suo film Il conformista, una sana e motivata preoccupazione riguardo alla direzione che l’Italia aveva preso. Oggi, quasi 50 anni dopo, l’acclamato regista non c’è più, ma il suo messaggio rimane forte e chiaro, attuale come non mai; ci colpisce e ci spinge a riflettere.

Impareremo dai nostri errori, maestro? Chi lo sà… in ogni caso, a me, hai insegnato tanto. Grazie.

(Se non avete mai visto questo gran pezzo di cinema italiano, tratto dal romanzo di Alberto Moravia, vi invito a farlo perché si tratta di un film importante sia  dal punto di vista storico che umano)

L: I prigionieri incatenati di Platone!
M: E come ci somigliano..
L: Che cosa vedono?
M: Che cosa vedono? 
L: Lei che viene dall’Italia dovrebbe saperlo per esperienza.
M: Vedono solo le ombre che il fuoco proietta, sul fondo della caverna che è davanti a loro.
L: Ombre, i riflessi delle cose. Come accade a voialtri oggi in Italia.
M: Se quei prigionieri fossero liberi di parlare non chiamerebbero forse realtà quelle loro visioni?
L: Si, si bravo, scambierebbero per realtà le ombre della realtà.

Il conformista, 1970

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Elio Petri: il regista romano maledetto, tra arte e politica

Arthur Schopenauer scrive: “Ogni verità passa attraverso tre fasi: prima viene ridicolizzata, poi è violentemente contestata, infine viene accettata come ovvia”. Spesso ai film di Elio Petri è toccata la stessa sorte, forse perché,appunto, veicoli di tanta verità. Ma l’ultima fase di questo processo, la completa accettazione, deve ancora concludersi, dato che il lavoro originalissimo del regista, è stato, per molto tempo, sotterrato sotto cumuli di critiche feroci. Ad oggi, leggendo le ben poche fonti a riguardo (almeno in italiano), emerge come una sorta di antipatia bigotta e preconcetta, quasi diffamatoria, nei confronti del cinema di Petri. Numerosi sono i casi in cui, i contenuti dei suoi film, hanno scatenato una lunga serie di polemiche, che per anni sono andate ad offuscare completamente la grandezza del suo lavoro. Già dal primo lungometraggio L’assassino (1961),Petri impara a conoscere l’ignoranza e la diffidenza della censura, che tenta addirittura di impedire l’uscita del film. Qualche anno più tardi, la critica inizia a farsi brutale, e La decima vittima (1965), frutto di una sofferta vicenda produttiva, finisce per essere definito una “vaccata” dallo stesso produttore, Carlo Ponti. Lo sceneggiatore e scrittore Ernesto Gastaldi, coinvolto nella realizzazione di uno dei numerosi copioni per il film, scrive che “il danno è irreparabile, mai più fantascienza in Italia”[1].

Nel1971, dopo il successo di Indagine su uncittadino al di sopra di ogni sospetto (1970), premiato con il premio Oscar al miglior film straniero, in occasione dell’anteprima de La classe operaia va in paradiso al Festival di Porretta Terme, il regista Jean-Marie Straub, invoca il rogo per la pellicola, senza subire alcuna contestazione da parte dei presenti. Gian Piero Brunetta ricorda di come, agli inizi degli anni settanta “ su Petri tirano tutti la loro palla, come ai baracconi del Luna Park. L’esercizio appare facile, anche se, in non pochi casi, ha un che di canagliesco e maramaldesco”[2].

Due anni più tardi, La proprietà non è più un furto, presentato nel corso delle Giornate del cinema italiano a Venezia,viene aspramente criticato dalla sinistra dell’epoca e, cosa che fa più male al regista, letteralmente massacrato dai propri colleghi. Todo Modo (1976), decimo profetico lungometraggio del regista,viene accolto con glaciale freddezza, tanto da segnare il decadimento della corrente del cinema politico italiano, nonché la fine del connubio Petri-Volontè. Sequestrato dopo neanche un mese di programmazione, il film diventa politicamente impresentabile in seguito al rapimento e all’ uccisione di Aldo Moro da parte delle Brigate rosse, restando avvolto nell’ oscurità per molti anni. Anche l’ultimo lavoro del regista, Buone notizie (1979), cupo e metafisico, non viene capito (forse perché proiettato spaventosamente verso un futuro prossimo) e perciò dimenticato. In tutta questa ostilità, Petri non manca di rispondere agli attacchi, né di essere provocatorio nei confronti di quei “baroni mummificati nel loro eterno ruolo di magistrati del gusto”[3],che sono per lui i critici cinematografici.

Una lunga sfilza di vicende hanno influenzato fortemente la carriera del regista,nonché il ricordo di esso: l’immagine di Petri che si può ricavare dai testi,risulta sfocata e ripetitiva, a tratti distorta, caricaturale. Molti aspetti brillanti della personalità del regista trovano sfogo solamente nella testimonianza diretta del suo pensiero, i film, le immagini, più eloquenti di centinaia di pagine piene di parole.

Per quanto criticato e non capito, il regista romano, più di molti altri, è stato in grado di cogliere e descrivere nel suo cinema, la realtà inquieta e vivace degli anni sessanta e settanta. Non solo affrontando i temi di importanza politica e civile che lo hanno reso noto, ma anche analizzando il contesto generale che ruota attorno all’uomo di quegli anni. L’ aspetto artistico, in parte oscurato dalle questioni sopracitate, è funzionale, nella filmografia di Petri, a restituire una condizione veritiera e coerente dei personaggi e dei fatti narrati. Per quanto non adeguatamente esaminato, questo lato della filmografia del regista è estremamente forte ed evidente; ne è testimonianza La decima vittima, il primo film affrontato nel presente lavoro. La vicenda fantascientifica messa in scena da Petri, per quanto bizzarra e distante dagli altri esempi di questo genere, si apre a letture più profonde. C’è una grande attenzione verso ogni aspetto visivo che compone l’inquadratura, dalle scelte cromatiche, ai riferimenti artistici che determinano la costruzione in chiave pop di tutto il profilmico. La decima vittima riesce a cogliere,addirittura ad anticipare, le mode e i consumi che si andavano affermando negli anni Sessanta.

La complicata vicenda produttiva che ruota attorno alla realizzazione del film ne compromette l’aspetto fantascientifico, “sporcandone” il genere con macchie di commedia all’italiana, di romance, e anche di western. In questo campionario di generi, l’arte diviene filo conduttore.

Petri, grande appassionato, nonché collezionista di opere d’ arte, tappezza il film di citazioni artistiche a lui contemporanee, tra cui gli uomini in gesso di George Segal, i bersagli di Jasper Johns, le enormi sculture/gelato di ClaesOldenburg, le famose vignette di fumetto di Roy Lichtenstein, nonché l’omaggio all’ arte di Andy Warhol, il maggiore esponente della Pop Art. I protagonisti, interpretati dalla bellissima Ursula Andress e dall’ inimitabile Marcello Mastroianni, sono inseriti in uno scenario estremamente attuale più che avveniristico, un futuro ambiguo e posticcio che si fa caricatura dal presente, lasciando emergere la satira del mondo moderno che si cela sotto la superficie fantascientifica del film.

Secondo la classificazione eseguita da Lucia Cardone, La decima vittima appartiene al primo periodo della filmografia del regista, cosiddetto di “assestamento”. Segue la produzione matura, che culmina nel fortunato binomio di Indagine e La classe operaia va in paradiso, e giunge infine la terza e ultima fase, la più cupa e grottesca, al quale appartiene, tra gli altri,  Todo modo, il “film maledetto” di ElioPetri[4].  In questa suddivisione, non trova praticamente posto il sesto lungometraggio del regista, che apparterrebbe in teoria alla fase intermedia, quella di maggiore equilibrio; Un tranquillo posto di campagna (1968),definito dalla scrittrice come “una strana parentesi”, viene frettolosamente liquidato. In effetti le fonti a riguardo sono a dir poco scarse, quasi inesistenti, il film rappresenta un unicum all’ interno della produzione di Petri. Si tratta di un film dell’orrore,una ghost story ben lontana dai temi politici: un pittore in piena crisi creativa tenta di ritrovare l’ispirazione mentre si appassiona alla romantica storia di una bellissima contessina ninfomane, uccisa tanti anni prima nella villa veneta che lo ospita. L’arte è fortemente presente già dai titoli di testa, in cui si alternano, con un ritmo serrato e psichedelico, figure pop e opere d’arte celebri (di artisti come Mondrian, Magritte, Goya, Bacon, Rembrandt e Delacroix).

Perla realizzazione del film è fondamentale la collaborazione del pittore neo-dadaista Jim Dine, che guida l’attore Franco Nero nelle scene di pittura e realizza personalmente le opere d’arte presenti nel film. Ancora una volta viene fuori, non solo la grande passione, ma soprattutto la grande conoscenza(da autodidatta) di Petri nei confronti dell’arte, sia moderna che classica.

Nonostante l’aspetto surreale e onirico di tutto il film, la critica ai sistemi della società dei consumi trova sempre posto: il regista sfrutta il racconto per intraprendere una riflessione sul ruolo dell’artista nella società di massa e sulla mercificazione alla quale l’oggetto d’arte è sottoposto.

L’ultimo capitolo è incentrato sulla cosiddetta Trilogia della nevrosi. Petri, insieme con il fidato sceneggiatore Ugo Pirro, pone al centro del discorso i tre pilastri su cui si fonda la nuova società borghese: potere, lavoro e denaro.

Indagine su un cittadino al disopra di ogni sospetto è senz’altro il film di maggior successo, e il più famoso, di Elio Petri. Anche in questo caso,dietro un evidente messaggio sociale e politico, si consuma la citazione artistica, come sempre funzionale alla narrazione. Il regista pone il personaggio del dottore (Gian Maria Volonté) e quello della sua amante, Augusta Terzi (Florinda Bolkan), su due piani completamente diversi, visivamente opposti. Gli spazi del potere, gli uffici di polizia in cui opera il protagonista, sono caratterizzati da uno stile funzionalista e surreale, in piena contrapposizione con gli arredi liberty che popolano l’abitazione della donna.

Vittima del gioco di potere tra lei e il dottore, la sensuale Augusta Terzi, finisce per vivere solamente nei ricordi del protagonista, restando intrappolata su uno sfondo Art Nouveau che la rende affine alle “donne dorate” di Gustav Klimt.

La trilogia prosegue con La classe operaia va in paradiso, che testimonia la condizione straniante vissuta dagli operai in fabbrica agli inizi degli anni Settanta. Petri stavolta mette in campo la sua vena artistica riuscendo a rappresentare con intensità l’alienazione che affligge il protagonista Lulù, prodotto imperfetto di una società in cui non trova posto.

Infine, La proprietà non è più un furto, chiude la trilogia. La rappresentazione cupa e profetica degli effetti della proprietà sull’ uomo, procura un forte senso di straniamento, quasi una sorta di ribrezzo,che avvicina molto l’espressivismo de La proprietà alle opere d’arte di Francis Bacon, l’oscuro pittore dell’uomo moderno. Il film vira fortemente verso la rappresentazione grottesca,collocandosi nell’ ultima fase della filmografia del regista, la più cupa,tant’è che Petri stesso affermerà: “gli ultimi film li ho fatti sempre soffrendo un poco perché non li facevo divertendomi, ma seguendo un mio certo discorso sull’utilità. Se devo proprio trovare un posto nella sua mappa, mi situi tra coloro che credevano d’essere utili. Spesso mi sembra addirittura di non esserci, nel cinema italiano”[5].Ma nonostante questo, Petri non si è mai fermato finché non è stata la malattia a farlo, ha continuato a rendersi “utile”, anche se in pochi hanno saputo riconoscerlo; seppur remando controcorrente, con fatica, un posto nel cinema italiano Petri se lo è senz’altro meritato.

Perciò è necessario, oggi più che mai, ricordarsi di quello che è stato un grande regista politico, si, ma anche un umile “artigiano del cinema”[6],un autore in grado di mettere nella rappresentazione tutto sé stesso.


[1] Diego Mondella (A cura di), L’ultima trovata. Trent’anni di cinema senza Elio Petri, Via Borgonuovo 21/a, Bologna, Pendragon, 2012, p. 56

[2] Lucia Cardone, Elio Petri, impolitico. La decima vittima (1965), Pisa, Edizioni ETS, 2005, p. 23

[3] Lucia Cardone, op. cit., p. 25

[4] Lucia Cardone,  op. cit., p. 22

[5] Diego Mondella (A cura di), L’ultima trovata. Trent’anni di cinema senza Elio Petri, Via Borgonuovo 21/a, Bologna, Pendragon, 2012, p. 225

[6] Ivi, p. 224

Un tranquillo posto di campagna (1968)

Analisi artistica del film

 

  • Trama

L’affermato pittore Leonardo Ferri (Franco Nero) si trova nel pieno di una profonda crisi creativa, ma anche psicologica: da più di due mesi non riesce a completare un’opera ed è tormentato da incubi e allucinazioni in cui la sua manager ed amante Flavia (Vanessa Redgrave), dopo averlo viziato a dovere con giocattoli elettronici di ogni genere, tenta di ucciderlo. Per ritrovare l’ispirazione decide di lasciare per qualche tempo Milano, alla ricerca di un posto tranquillo in campagna che gli permetta di lavorare serenamente. La risoluta Flavia gli trova subito alloggio nella villa veneta di uno dei suoi più influenti collezionisti, Leonardo però è fortemente attratto da una residenza vicina, abbandonata e dismessa, ma apparentemente tranquilla. Tra capricci e ricatti riesce a convincere Flavia che la misteriosa villa è l’unico posto in cui può tornare a produrre, e la persuade a comprarla. Ben presto però all’interno dell’abitazione iniziano a manifestarsi strani fenomeni, così Leonardo si reca in paese in cerca di qualche informazione sui precedenti proprietari e scopre che più di venticinque anni prima una contessina rimase uccisa da un mitragliamento avvenuto durante la guerra, il suo nome era Wanda e pare fosse bellissima. Tra le varie stranezze che si manifestano nella casa, in particolare, ogni volta che Flavia è presente le accadono misteriosi incedenti che mettono a rischio la sua vita, per questa ragione la donna passa nella villa il minor tempo possibile. Nel frattempo le ossessioni del pittore aumentano e lo spingono e cercare sempre più informazioni sulla contessina Wanda, si reca di nuovo in paese dove apprende che la giovane, oltre ad essere bellissima, era una ninfomane; le donne continuano a parlarne con astio mentre gli uomini la descrivono come una splendida creatura. Scopre anche che la madre della giovane è considerata da molti la responsabile delle perversioni della figlioletta,  si reca quindi a Venezia per incontrarla e  fingendosi un giornalista sottrae alla contessa, ormai decaduta, molte foto di Wanda.

In un vorticoso crescendo, le ossessioni dell’artista continuano ad alimentarsi, finché non decide di organizzare nella villa una seduta spiritica per rievocare lo spirito della contessina, invitando all’evento gli abitanti del paese e la compagna. Durante la seduta medianica lo spirito di Wanda sembra effettivamente essere presente e Flavia, sentendosi strangolare, caccia tutti dalla casa, ma poco dopo vede i graffi sulle mani di Leonardo e capisce che è stato lui a tentare di ucciderla; la donna cerca di scappare, ma la sua sorte non appare da subito chiara, dato che ormai le visioni del pittore e la realtà si sono completamente intrecciate. Infine il fattore Attilio, ex amante di Wanda, rivela a Leonardo la verità sulla morte della giovane: essa era rimasta illesa dal mitragliamento aereo, ma l’uomo, accecato dalla gelosia, aveva sfruttato la situazione per ucciderla lui stesso.

Le visioni di Leonardo continuano a sovrapporsi alla realtà fino all’arrivo degli ufficiali di polizia e di alcuni infermieri, venuti a prelevarlo per portarlo in un manicomio, dove sorprendentemente si completa la rinascita artistica del pittore, che lavorerà come mai prima, con grande soddisfazione di Flavia e dei collezionisti d’arte.

 

 

  • I titoli di testa: la prima opera d’arte

Elio Petri è principalmente conosciuto per gli aspetti sociali e provocatori che caratterizzano i suoi film ma l’etichetta di “cinema politico” ha rappresentato spesso un limite più che un valore aggiunto[1]. In questo caso, ad esempio, il politico lascia spazio alla vena creativa del regista, regalandoci un film formalmente stupendo[2], ma da sempre sottovalutato. “Non è improbabile che in una retrospettiva delle opere del regista romano, La decima vittima e Un tranquillo posto di campagna finiscano con l’apparire più vitali di altre. Forse perché il regista, lasciando fra le righe l’impegno politico, si è abbandonato liberamente all’estro figurativo e al sano piacere del raccontare”[3].

Il lato artistico di Petri è evidente fin dai titoli di testa; un sonoro inquietante, composto da graffianti fischi, bisbigli, cigolii e rumori di vario tipo, apre il sesto lungometraggio di Elio Petri; comprendiamo da subito che la colonna sonora, creata da Morricone in collaborazione con il “Gruppo di Improvvisazione Nuova Consonanza”, non è fine a se stessa, ma anzi è fondamentale nel dare maggiore efficacia alle immagini che scorrono sullo schermo. Su questa base sonora, con un ritmo serrato e psichedelico, i titoli di testa aprono il film mettendo in relazione figure pop e opere d’arte classiche. Tra le immagini in rapida successione si possono notare diversi quadri famosi (alcuni dei quali verranno ripresi più in là nel film), inseriti quasi come le immagini subliminali nelle pubblicità:  il dipinto albero rosso (1908/1909) di Mondrian, la prospettiva di Madame Rècamier(1951) di Magritte, la versione originale di Madame Rècamier(1800) di Jacques-Luis David, Il 3 Maggio1808 di Francisco Goya, il ritratto Gabrielle d’Estrées et une de sessœurs(1594) dipinto da un artista sconosciuto, La grande odalisca (1814) di Ingres, il Bue macellato (1655) di Rembrandt, Figure with meat(1954) di Francis Bacon, la Maja desnuda (1797-1800) di Francisco Goya, l’affresco San Francesco che predica agli uccelli (1290-1295) di Giotto, le donne di Algeri nelle loro stanze (1834) di Delacroix, l’atelier dell’artista (1854-1855) di Courbet sono alcune delle opere presenti. Il tutto è intervallato da una grafica minimale, frecce nere su sfondo bianco accompagnano i nomi di autori e interpreti, numeri e lettere scorrono su una pellicola apparentemente danneggiata; in realtà, più che malmessa o sporca, sembra che abbia subito interventi pittorici: pennellate di rosso, azzurro, nero e marrone, gettate su un supporto diverso dalla tela rendono possibile l’incontro tangibile tra arte pittorica e cinematografica, facendo di questa breve sequenza, una piccola opera d’arte.

  • L’arte di Leonardo/Jim Dine

Per la realizzazione del film, Petri, grande appassionato di arte moderna, si avvale della collaborazione di un noto artista americano, Jim Dine, al quale dedica inoltre un corto in 16 mm (mai montato), una sorta di “inchiesta visiva”, appunti in forma di cinema per la preparazione del film[4]. Dine, considerato erroneamente da molti critici un artista pop, è in realtà più vicino al movimento neo-dadaista[5], tendenza che riprende appunto temi e stili dadaisti, attraverso l’uso di materiali vari e moderni; alla base della poetica di questo stile sta la negazione dei concetti tradizionali dell’estetica. Dine si occupa inoltre di scrivere e concepire degli happening, citati più volte anche nel film (“non dimenticarti l’happening alle sei” continua a ripetere Flavia), che rappresentano una forma del tutto nuova di fare arte: l’attenzione non si focalizza più sull’oggetto d’arte, ma piuttosto sull’evento, una sorta di spettacolo teatrale che spesso coinvolge anche il pubblico. Uno degli artisti più noti in questo settore è, ad esempio, Spencer Tunick, responsabile di aver organizzato ed immortalato, non senza ripercussioni legali, happening nei quali una serie di modelli volontari posavano completamente nudi nel bel mezzo della città (Londra, Lione, Sidney, Roma, Barcellona tra le altre). Ma senz’altro l’aspetto esaminato più attentamente nel film è quello del processo creativo che sta alla base dell’ Action painting (letteralmente “pittura d’azione”) anche nota come espressionismo astratto o astrazione gestuale; si tratta di uno stile di pittura, inaugurato da Jackson Pollok, in cui il colore viene lanciato, fatto gocciolare o impresso sulla tela.[6] L’importanza del mondo onirico e dell’inconscio nel film è ben restituita dal significato stesso dell’ action painting: a creare l’opera d’arte non è tanto l’artista quanto il suo inconscio, i gesti pittorici sono mossi da impulsi istintivi che il pittore lascia affiorare e da cui si lascia guidare. Proprio come nel film Leonardo si lascia trascinare dal suo inconscio e dal suo istinto, dapprima sulla tela e poi nella vita stessa: lascia che le ossessioni e i sogni che si celano nella sua mente prendano il sopravvento, portandolo alla pazzia, ma è proprio la pazzia a renderlo libero. L’action painting rappresenta la reazione violenta dell’artista-intellettuale, l’azione non ideata e non progettata in una società del benessere dove tutto è progettato, non mostra e non esprime una realtà oggettiva o soggettiva: è puro sfogo. Leonardo all’inizio del film è creativamente bloccato a causa della pressione che Flavia esercita su di lui, e che lo porta ad identificarla come sua carnefice nei sogni; il pittore soffre perché la sua arte è ormai mercificata, condizionata dalle regole del mercato. Nella sequenza iniziale lo traviamo impegnato nella creazione di un’opera nel suo studio; per prima cosa stende a terra un grosso telo ed inizia a cospargerlo di colore rosso, lavorando il colore velocemente con le mani, ma ben presto si blocca. Cerca allora ispirazione proiettando su una parete diapositive di guerra e di seni in rapida successione; si avvicina ad un grosso pannello bianco, dove con una spugna immersa nel colore imprime dei piccoli rettangoli, dopodiché inizia a ricoprire il tutto con della vernice rossa, operazione che ripete subito dopo con il blu, poi torna ad imprimere piccoli rettangoli con la spugna imbevuta di colore giallo, prova quindi ad appoggiare sul pannello un coperchio circolare o ad attaccare con un chiodo dei nastri rossi, ma, insoddisfatto, abbandona l’opera incompleta.

Si susseguono una serie di tentativi falliti, finché Leonardo non perde di vista l’obiettivo di produrre: è solo abbandonandosi completamente al suo sentire, lasciandosi catturare dalla romantica storia di Wanda, che il pittore ritrova la sua ispirazione. Nel finale del film, quando Leonardo ha ormai perso ogni contatto con la realtà, possiamo assistere alla creazione, stavolta completata, di un’altra opera, con cui si realizza la sua rinascita creativa. Il protagonista in preda al delirio, cattura la giovane domestica della casa con il suo amante, stende i loro corpi legati, apparentemente senza vita, su di un grandissimo telo bianco e con un aerografo li cosparge di rosso (colore che ormai lo ossessiona), li trascina e li sovrappone continuando a spruzzarli di colore, finché non li slega e i due scappano velocemente.

L’idea di usare il corpo nudo come strumento con in quale imprimere il colore sulla tela, non è una novità nel mondo dell’arte; Salvador Dalì (1904-1989), ad esempio, tra le sue varie sperimentazioni, “utilizzava” corpi nudi e colorati per imprimere su grandi tele, tracce cromatiche nate dai movimenti dei corpi stimolati dalla musica. Il pittore francese Yves Klein(1928-1963), precursore della body art, ha composto alcune delle sue opere più famose utilizzando proprio questa tecnica. Le Antropometrie sono opere in cui alcune modelle, secondo le direttive dell’artista, intingevano il loro corpo nel colore, per poi adagiarsi, in vari punti e in vari modi, direttamente sulla tela.

Il percorso dell’artista, o meglio, la sua liberazione, è in linea con la ricerca psicanalitica di Otto Rank, allievo di Freud: dal punto di vista psicologico la figura dell’artista corrisponde con quella del nevrotico e del sognatore. Queste tre figure hanno conservato lo stato infantile della sessualità che l’uomo normale ha rimosso crescendo, proprio come Leonardo, affermato pittore, è in realtà immaturo e capriccioso come un bambino.  Il conflitto che caratterizza tutta la loro vita può essere superato solamente dall’artista, tramite un compromesso, trasponendo la sua guerra interiore nell’opera, nella forma. Attraverso un processo di regressione, figure e nessi che fino a quel momento fluttuavano nello spirito dell’artista in forma nebulosa e indistinta si trasformano in ispirazione, quella che mancava a Leonardo prima della sua “discesa negli inferi”, fatta di sogni, ossessioni e fantasmi. Nell’ultima sequenza del film Leonardo si trova in manicomio, appare finalmente sereno ed ispirato circondato da centinaia di piccole preziose tavole “scarabocchiate” di rosso; “Non ha mai lavorato così bene eh?!” dice l’influente collezionista a Flavia.

L’arte è libera, anche dalla ragione.

 

  • L’importanza del rosso e la costruzione dello spazio

Per un film che ha come protagonista un pittore e la sua arte, viene senz’altro spontaneo tener conto dell’aspetto visivo e dello stile con cui la storia viene raccontata, ma nel caso di Petri il discorso si fa più ampio. La componente artistica, qui particolarmente presente, è in realtà una costante nella filmografia del regista, il cui stile “si caratterizza fin da subito per l’attenzione agli aspetti visivi, per la composizione ampia, per gli arditi movimenti della macchina da presa”[7]. Ma l’attenzione alla forma, all’impatto visivo, deriva per buona parte dalla curiosità che il regista romano ha sempre nutrito verso l’arte pittorica, disciplina alla quale si appassiona fin da giovane. Attraverso una serie di studi da autodidatta e grazie al forte legame con l’amico romano, il pittore Renzo Vespignani, che oltretutto cura la scenografia per I giorni contati e L’assassino, Petri diventa un intenditore, nonché un collezionista d’arte. Nella sua piccola casa romana il regista crea una “piccola ma bella collezione di quadri, la maggior parte dei quali, in un certo senso, riverbera per tecnica rappresentativa lo stile di Petri: un figurativismo distorto e grottesco, escrementizio”[8]. Non stupisce quindi che il regista senta il bisogno di approfondire il discorso sull’arte e, allo stesso tempo, di mettere sullo schermo le sue conoscenze e preferenze pittoriche, non solo citandole, ma integrandole nella messa in scena. Petri affronta la realizzazione del film con mano da vero artista, lasciandosi trasportare dall’evidente passione per l’argomento; a proposito di Un tranquillo posto di campagna, Giuseppe Turroni scrive “un film formalmente stupendo, ma , appunto, perché formalmente troppo bello, capace di creare perplessità in chi si vuole trovare di fronte a un cinema-guida, a un cinema morale, a un cinema spoglio ed essenziale”[9]. Dietro a un film da sempre sottovalutato si cela in realtà una composizione colta e raffinata, strabordante di citazioni da cogliere. Innanzitutto, Petri conferisce un grande ruolo al colore, il rosso per essere precisi. Il colore dell’amore e della passione, ma non solo; il rosso è il colore della vitalità e del movimento, il primo colore dell’arcobaleno che i neonati imparano a riconoscere, nonché, il colore del pianeta Marte, della guerra e, chiaramente, del sangue. Sangue che spesso, nel corso del film, viene letteralmente sostituito dal colore vero e proprio, dall’inchiostro e dalla tempera che riempie tele, stanze e corpi. Non bisogna dimenticare che si tratta comunque di un film dell’orrore e le immagini assumono quindi il fondamentale compito di creare nello spettatore un certo stato d’animo. Per realizzare questo il rosso è perfetto, non solo perché, come già detto, è il colore del sangue, ma anche per le sue proprietà intrinseche: l’esposizione prolungata al colore rosso è in grado di accelerare i battiti cardiaci, stimolando la produzione di adrenalina. Nella prima sequenza del film, quando il sangue vero, pochissimo, è ancora lontano, il regista inizia ad “accendere” lo spettatore introducendolo in uno spazio dominato dal rosso. Leonardo si trova legato a una sedia nel suo appartamento milanese, sembra di trovarsi di fronte a una sorta di performance artistica, la prova di un happening magari.

Entra Flavia, interpretata dalla bellissima Vanessa Redgrave, e attraversa l’ampio salotto/museo che accoglie alcune delle opere dell’artista e altri elementi stravaganti di design.

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La donna ha con se una serie di “giocattoli tecnologici”come un nuovissimo televisore subacqueo, un affilatrice per coltelli elettrica, un’elettrocalamita erotica, un elettrocaffettiera e una piccola automobile per muoversi da una stanza all’altra. Leonardo sbadiglia, immobile sulla sedia; “Felice?” gli chiede lei. Di lì a poco Flavia, dopo averlo sessualmente provocato e dopo avergli ricordato l’happening alle sei, inizia ad accoltellare il compagno inerme, che vediamo, subito dopo, agitarsi nel letto in preda al terribile incubo. In questo primo ambiente, il salotto/museo, il rosso ricopre ogni angolo di pavimento, avvolgendo i corpi degli attori stessi. Il contrasto con il bianco, sembra rendere il colore ancora più brillante e la presenza degli altri due colori primari, il giallo e il blu, ricorda senz’altro le scelte cromatiche di Mondrian nella fase del neoplasticismo (anche detta de stijl), periodo al quale appartengono le suo opere più note. Ma a richiamare le opere di Mondrian non solo soltanto i colori; i non colori del bianco e del nero svolgono nell’appartamento lo stesso ruolo che il pittore olandese gli attribuisce sulla tela, il bianco per lo sfondo e il nero per la linea.

L’obiettivo, per Mondrian ma anche per Petri, è quello di creare un equilibrio mettendo in relazione forme e colori, proprio secondo i principi neo-plastici: “Nella poetica neo-plastica è estetico il puro atto costruttivo: combinare una verticale ed una orizzontale oppure due colori elementari è già costruzione.”[10]

L’appartamento moderno viene però lasciato in favore della villa veneta, dove il colore rosso si attenua, almeno inizialmente, ma continua a ricoprire un ruolo importante; la stanza bianca di Leonardo è ornata da una serie di fregi di colore rosso, rosso è il vino che beve o la copertina del libro che legge, rossi i capelli della domestica Egle. Una continua allusione al sangue e alla carne, che di li a poco, si rivelerà essere un riferimento a Wanda Valier. La villa esercita un forte influsso su Leonardo che, lasciando da parte le tele che dovrebbe ultimare, si butta a capofitto nella romantica storia della contessina, inizia le sue “indagini” interpellando un gruppo di paesani, continua parlando con il macellaio, ex amante della giovane, e finisce per recarsi a Venezia, nella casa della contessa Valier, madre di Wanda. È qui che la figura della giovane si delinea agli occhi di Leonardo; la languida donna lo conduce in una stanza dedicata alla figlia, una sorta di camera/reliquiario tappezzata di fotografie, nella quale è incorniciato anche un vestito appartenuto alla ragazza, un sensuale abito rosso. Man mano che la figura di Wanda prende forma nella mente del pittore, la creatività torna e la sua ossessione per il rosso aumenta con violenza. Dopo l’incontro con la contessa, Leonardo torna alla villa dove dipinge gli alberi di rosso e in risposta alle osservazioni del fattore Attilio sul fatto che sarebbero morti, risponde “meglio morti ma rossi”.

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Riguardo al rosso è interessante notare come questo colore sia quasi completamente assente nel precedente La decima vittima, nel quale a ricoprire un ruolo importante è invece il giallo, inteso come colore dinamico del futuro-non futuro. L’assenza del rosso rappresenta nel film di fantascienza l’assenza dell’amore e del sangue[11], che invece in questo caso muovono la storia, anche se il sangue è rappresentato più che altro dal colore stesso.

 

  • Pensieri di morte: i corpi-bara di Magritte

Trattandosi essenzialmente di una ghost story, non si può non tener conto dei richiami mortuari che tempestano la pellicola. Come abbiamo già detto, per prima cosa, il rosso svolge il compito fondamentale di riempire il film di sanguinaria tensione, laddove il sangue è in realtà praticamente assente. Nel corso del film si incontrano più volte degli uccelli, sia visivamente che attraverso il sonoro, ricorrenti sono infatti cinguettii e fruscii dovuti al battito d’ali. Un corvo attira l’attenzione di Leonardo nella casa del suo influente collezionista, una serie di uccelli si alzano da terra quando il pittore si intrufola nella villa infestata; quando si reca a Venezia, prima dell’incontro con la contessa Valier, il pittore si sofferma a guardare un uccello morto che galleggia nel canale. Questi animali, per la loro capacità di volare, rappresentano in moltissime culture l’anello di congiunzione tra la realtà terrena e quella ultraterrena, tra il mondo fisico e quello spirituale, in questo caso, tra il mondo dei vivi e quello dei morti. Gli altri elementi che rimandano all’esoterismo e all’aldilà sono gli specchi e le forbici: quest’ultimo oggetto, protagonista di numerose superstizioni, si palesa varie volte nella villa come una manifestazione fisica di Wanda. Gli specchi, invece, sono particolarmente presenti verso il finale del film, quando Leonardo, in preda alla follia, ricopre di specchi le finestre e le pareti della piccola stanza segreta in cui Wanda era solita consumare rapporti sessuali. La contessina vestita di rosso appare riflessa negli specchi e poi finalmente si palesa stesa sul letto di fronte al pittore; la macchina da presa inquadra sottosopra la sua testa appoggiata sul cuscino, poi si alza e ci mostra Leonardo, si abbassa di nuovo e troviamo il volto di Leonardo, anche lui visto al contrario, come in un riflesso. Il movimento si ripete un’ultima volta e sul cuscino non c’è niente. Visioni e realtà sono ormai facce opposte di una stessa medaglia. Per quanto riguarda i richiami mortuari, è necessario soffermarsi su quella che è la citazione più esplicita contenuta nel film. Nella sequenza che si svolge a casa della contessa, Petri ci tiene ad inserire un’opera del surrealista René Magritte che evidentemente ammira molto e che di certo può essere presa come spunto per una riflessione profonda. Leonardo attraversa il corridoio che lo conduce nella stanza dove si trova l’anziana nobildonna, la vede sdraiata su una dormeuse , ma affinando lo sguardo, socchiudendo leggermente gli occhi per vedere meglio, la donna si rivela nella sua forma di bara.

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Magritte nel 1950, nella sua Perspective: Madame Rècamier de David, rielabora con violenza l’opera realizzata nel 1800 da Jacques-Louis David affrontando la questione della prospettiva, non da un punto di vista fisico, ma temporale, ritraendo lo stesso soggetto 150 anni dopo. L’artista belga riprende la Récamier racchiudendola in una bara surreale, formata da due parallelepipedi sovrapposti, nel rispetto della postura da imperatrice. L’estraniazione ironica proietta presto un’ombra plumbea sull’anima: un memento mori che vuole sottolineare la caducità della bellezza e della vita. L’immagine della salottiera francese, fissata da David nel pieno della sua grazia, viene così imprigionata per sempre nel silenzio della morte e non più nella mitologia di un’epoca.

L’omaggio a Magritte prosegue subito dopo. Leonardo sta per lasciare casa Valier, mentre la donna cerca di trattenerlo elemosinando compagnia; si distoglie per un momento dalle immagini di Wanda e la vede, il raccordo di sguardo ci ricorda la sua condizione.

La bara “in piedi” ci ricollega alla Perspective II: Manet’s balcony, realizzato 81 anni dopo l’originale di Manet. L’impressionista colloca sul balcone quattro dei suoi più intimi amici che, anche in questo caso, vengono ritratti  da Magritte tenendo conto dello scorrere inesorabile del tempo.

Da questo incontro la contessa appare paradossalmente più morta della figlia; la giovane infatti continua a vivere nei sogni di Leonardo, nella forza del colore rosso e nei ricordi sensuali di chi l’ha conosciuta. La nobildonna è invece irrimediabilmente decaduta, povera ed intrappolata nel passato, dimenticata da ogni essere vivente, tanto da diventare, come nelle prospettive di Magritte, soltanto il ricordo di una persona.

 

 

[1] A cura di Diego Mondella, L’ultima trovata. Trent’anni di cinema senza Elio Petri, Bologna, Pendragon, 2012, p. 22

[2] G. Turroni, 1969, p.85

[3] A. Tassone, 1979-1980,  p.227

[4] Lucia Cardone, Elio Petri, impolitico, La decima vittima (1965), Edizioni ETS, Pisa, 2005, p.49

[5] Ivi, p. 50

[6] Marina Pugliese, Tecnica mista. Materiali e procedimenti dell’arte del XX secolo. 2006, Mondadori Bruno, p. 182

[7] Lucia Cardone, Elio Petri, impolitico, La decima vittima (1965), Edizioni ETS, Pisa, 2005, p.30

[8] Alfredo Rossi, Elio Petri e il cinema politico italiano, 1979, p. 58-59

[9] G. Turroni, 1969, p.85

[10] Giulio Carlo Argan, L’arte moderna (1770/1970), Firenze, 1970, p. 352

[11] Lucia Cardone, Elio Petri, impolitico, La decima vittima (1965), Edizioni ETS, Pisa, 2005, p. 74